Saturday, February 17, 2007

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Si fa presto a elencare gli elementi positivi del ddl governativo sulle convivenze, i Dico. 1) La proposta ha finalmente posto sul terreno politico un problema che il movimento non era mai riuscito, in quattro legislature, a far approdare nemmeno sulle vaghe spiagge delle commissioni parlamentari. 2) Si tratta di una proposta del governo, non di una semplice iniziativa parlamentare (di quelle ce n'è a decine, molto migliori). Il governo ha convenienza che il progetto venga discusso e divenga legge. Ciò non garantisce nulla, ma non potranno dirci che si tratta di una proposta come tante. Fiducia o non fiducia, Prodi e i suoi ministri ci si sono impegnati. Gli aspetti positivi finiscono qua.

Bastano, questi due elementi, perché ci si impegni a sostenerlo e cercare di farlo passare? Se il metro di misura dovessero essere le reazioni degli oppositori (gerarchie cattoliche e loro sudditi, esterni e interni alla maggioranza), si dovrebbe dire senz'altro di sì. Il progetto, inoltre, può essere migliorato, difficile peggiorarlo ulteriormente; più probabile che si tenti semplicemente di stopparlo, se i contrari non riuscissero a stravolgerlo (in particolare, a togliere il riconoscimento delle convivenze fra omosessuali).

Veniamo alle incongruenze giuridiche del progetto, alcune già evidenziate da media e commentatori, altre, più di fondo, ma più nascoste, e tali da incrinare pesantemente il valore della legge. Cominciamo da quelle più evidenti. La dichiarazione di convivenza può essere avanzata all'anagrafe da ambedue i conviventi, sia pure in maniera disgiunta, ma anche da uno solo dei due. In tal caso però, questi dovrà dare la prova di aver reso edotto l'altro tramite notifica a mezzo di raccomandata del passo che sta per compiere. Il meccanismo è assurdo, come tutti hanno riconosciuto. Come è pensabile che si proceda all'iscrizione della convivenza senza che il partner lo sappia e sia d'accordo? Ci possiamo immaginare la reazione di chi riceve la notificazione: «Non potevi dirmelo a voce?». E se la raccomandata viene, del tutto legittimamente, ritirata dallo stesso convivente che la ha spedita?

Ipocrisia senza limiti

E' evidente lo scopo di un simile marchingegno: evitare qualunque passo che lontanamente somigli ad una cerimonia, a una dichiarazione comune di volontà e di intenti. Ma dovrebbe esserci un limite anche all'ipocrisia. E poi, che succede se colui cui viene notificata per raccomandata la volontà dell'altro non è d'accordo sull'iscrizione? Inizierà un'azione per sostenere che mancano i presupposti per il Dico: mancano i reciproci vincoli affettivi o mancano l'assistenza e la solidarietà materiale e morale. Ma entro quanto dovrà farlo? Il suo diritto a non vedersi inchiodato da un Dico si prescrive in termini ordinari, dunque entro 10 anni. Fino ad allora tutto rimane aperto.

Procediamo con le incongruenze «secondarie». In alcuni punti il progetto è peggiorativo della situazione giuridica attuale. Il diritto per il convivente alla successione nel contratto di locazione è stato riconosciuto nell'ormai lontano 1988 da una sentenza della Corte Costituzionale (che dunque ha valore di legge), che non poneva obblighi di tempo di convivenza. Oggi, invece, la convivenza a monte della successione nella locazione deve essere di almeno tre anni. Che ne dirà, un domani, la stessa Corte Costituzionale? Ugualmente, per fruire di alcuni vantaggi in materia di diritti dei lavoratori, occorreranno 3 (forse 5) anni di convivenza. Ma oggi alcuni contratti collettivi (quello dei giornalisti, per esempio) riconoscono tali diritti senza porre un simile sbarramento.

Tutti hanno detto dell'assurdità del non voler legiferare in materia di reversibilità della pensione del convivente: l'unico diritto consistente che si chiedeva di prendere in considerazione.

Lo stesso dicasi per l'assurdità di chiedere una convivenza di almeno 9 anni perché il partner superstite possa entrare nel novero della successione legittima, quando gli stessi matrimoni in genere si sfanno assai prima. Per non dire della concorrenza in sede di successione legittima anche con i nipoti: passi che il convivente concorra con i figli del defunto, con i fratelli o ascendenti, ma i nipoti che c'entrano? Anche il «richiamo del sangue» deve pur avere un limite.

Malattia o ricovero del convivente; decisioni in materia di salute o in caso di morte; assistenza al convivente detenuto. Qui andiamo su situazioni molto delicate, che si verificano in momenti di particolare debolezza della posizione del convivente, proprio perché è debole il partner (malato o in punto di morte o morto o detenuto) e quindi occorreva rafforzare il riconoscimento dell'unione. Niente di tutto ciò. L'ipotesi del partner detenuto non è nemmeno presa in considerazione. Fortuna che già oggi, di fatto, quasi dappertutto, i conviventi vengono ammessi a colloquio in carcere anche solo sulla base di un'autocertificazione di convivenza. Ma l'occasione era buona per sancire il diritto per tutti. Visita e assistenza al malato: si riconosce il diritto, però disciplinato dalle stesse strutture ospedaliere. Un diritto condizionato al capriccio di chi nelle strutture detiene il potere.

Decisioni sanitarie per chi non può più prenderle per sé stesso e decisioni sul corpo del defunto (donazioni di organi, trattamento del corpo, celebrazioni funebri): potranno essere prese dal convivente che risulti all'anagrafe, purché vi sia una designazione specifica scritta, autografa o accertata tramite verbale con tre testimoni. Qui siamo al ridicolo: il camion travolge il convivente, e bisogna ancora trovare carta, penna e testimoni per la dichiarazione, altrimenti nulla! Non basta risultare conviventi da venti giorni o venti anni?

I vizi di fondo.

Il riconoscimento dei diritti è strettamente connesso alla convivenze e abitazione. Ma tutti abbiamo sotto gli occhi unioni (spesso sono proprio per questo le più durature) che non prevedono convivenza, ma ugualmente si basano su affetto e sostegno. Persino i coniugi possono ormai fissare la propria residenza in luoghi diversi. Perché queste unioni debbono per forza basarsi sulla coabitazione?

Abbiamo già detto dell'ipocrisia di non accettare una dichiarazione congiunta, che suonerebbe troppo come cerimonia nuziale. Ma il vizio è annidato più nascostamente. Ciò che non sembra avere alcuna rilevanza giuridica è la volontà delle parti, espressa quanto meno contestualmente, visto che si tratta di diritti e obblighi individuali, ma reciproci fra due soggetti. Già si è detto dell'assurdità della notifica di volontà al convivente. In più, non si prevede neppure un atto di volontà per recedere dalla convivenza. L'unica ipotesi normativamente prevista è il caso di matrimonio di uno dei due conviventi.

Chi aveva sempre auspicato in materia un diritto «leggero» che valorizzasse al massimo la volontà delle parti e vedesse la mano pubblica intervenire solo su alcune questioni (pensione, regime delle successioni e poco più) rispetto alle quali occorreva un riconoscimento statuale, si trova invece di fronte a una serie di norme che non riconoscono la volontà e si ancorano invece a dati di fatto opinabili. S'è detto che il convivente che intende opporsi al Dico può invocare la mancanza dei vincoli affettivi o di solidarietà; ma vi è di più: chiunque ne abbia interesse (i coeredi, o lo stato stesso) possono contestare la durata della convivenza (sotto ai nove anni, infatti, il convivente non succede legittimamente). L'accertamento di tutto ciò, per di più, è affidato alla mano più pesante del nostro ordinamento, il giudice penale, che in caso di dichiarazioni non veritiere, può comminare condanne da uno a tre anni di carcere e una multa fino a 10.000 euro. Dopo un processo in cui si sarà indagato approfonditamente se il vincolo affettivo c'era o meno, se l'assistenza fu prestata o no e se vi era solidarietà morale! E' lecito domandarsi quanti matrimoni resisterebbero ad un simile vaglio.

I Dico tutelerebbero anche forme di convivenza di persone non in coppia (etero o omo): i due anziani conviventi, i due amici che si sostengono e si assistono e così via. Tutte situazioni che certo sono meritevoli di un riconoscimento e di un sostegno collettivo; ma siamo così sicuri che si tratti di posizioni in tutto equiparabili a chi, in coppia (etero o omo) intende fondare e portare avanti un progetto di vita in comune, che magari comprende anche figli, e si proietta nel futuro? Situazioni diverse meriterebbero discipline diverse, non una nebbia indistinta, che sembra creata apposta per non lasciare nemmeno intravedere le nuove forme di unione che, invece, sono sotto gli occhi di tutti.

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